
Il marchio dell’oro nero è un thriller solido, capace di sfruttare con abilità elementi di fantapolitica per delineare uno scenario – segnato dall’intreccio perverso di economia, politica e guerra – fosco ma credibile, e risultare avvincente per tutte le pagine che lo compongono.
Testo dall’intreccio complesso, ma ben gestito, che non lascia mai spazio a soste o a momenti di stanchezza, abile e riuscito nel suo intrecciare elementi e personaggi di fiction con dati e personalità reali, ben documentato, Il marchio dell’oro nero ha il merito, non disprezzabile, di affrontare, senza abbellimenti, ma sapendo evitare toni stucchevoli, il difficile argomento dell’intreccio tra politica e affari e le sue ripercussioni sul cosiddetto Terzo Mondo, portando in primo piano una vicenda dolorosa – forse troppo a lungo trascurata – come quella del Sudan meridionale martoriato dalla guerra civile. E lo fa, come si diceva, senza nulla cedere al taglio giornalistico ma, al contrario, attraverso una storia per molti versi accattivante, che sussume in sé, perché evidentemente interiorizzati, gli stilemi e topoi propri del genere a cui appartiene: capitoli brevi, storia raccontata attraverso diversi punti di vista (tra cui emerge però, primus inter pares, lo sguardo del personaggio principale, in questo caso, ed è un altro merito non secondario, una protagonista), velocità e attenzione al ritmo. Senza contare la capacità di narrare la vicenda con un taglio di sapore cinematografico e di rendere l’atmosfera del paesaggio esotico in cui è ambientata la storia, al punto da far pensare a una conoscenza di prima mano dei posti descritti.
Un romanzo che unisce dunque, documentazione geopolitica e una perfetta conoscenza degli stilemi del thriller spionistico per raccontare una storia che, nella propria frammentazione, sembra capace di rendere la complessità dello scenario politico internazionale e che ci offre una protagonista e dei comprimari solidi, ben delineati, ematici.
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